A volte sembra di poterli vedere, analisti e ricercatori, studiosi, guru del marketing e “semplici” imprenditori, mentre, a suon di dati, strategie e nuove tecnologie, cercano di orientarsi in quella giungla notoriamente insidiosa che è il Mercato.
Si aggirano guardinghi in quell’ambiente impenetrabile pieno di entrate, ma soprattutto di uscite, imboccate le quali non sempre risulta semplice rientrare.
E in quell’habitat, che sembra aumentare la sua difficoltà di interpretazione in modo direttamente proporzionale ai raffinati strumenti ideati per studiarlo, eccoli aggirarsi: sono loro, i Clienti.
Commette un grave errore chi pensa di trovarsi di fronte ad una specie unica e chiaramente classificabile. I Clienti rappresentano una gamma incredibilmente varia di esseri viventi animata da pulsioni, ragioni e istinti che ne determinano repentini cambiamenti e improvvisi cambi di rotta.
E infatti, più si studiano e più si colgono differenze, sfumature e inaspettate varianti di specie e sottospecie, per non parlare delle dinamiche che ne cambiano i comportamenti a partire dalle condizioni dell’ambiente circostante.
Di recente poi, un altro inquietante fenomeno si sta diffondendo nella giungla del Mercato: agli attenti studiosi non sfugge come il Cliente, sempre più sotto la loro scrupolosa lente, tenda a elaborare ogni giorno nuove evoluzioni e mutamenti che lo rendono sempre più inafferrabile.
Ma un dubbio si fa largo negli ambienti scientifici: siamo proprio sicuri che il nostro Cliente passi le sue giornate a intrattenersi nell’esercizio della mimesi per sfuggire al nostro tentativo di catturarne l’attenzione?
E se invece fosse semplicemente… indaffarato?
Elevandosi al di sopra dell’intricato panorama in cui i Clienti si aggirano operosi, scaltri e sfuggenti, è possibile osservare un fenomeno che sfugge ad uno sguardo eccessivamente ravvicinato.
I Clienti, di qualsiasi tipologia e specie, in realtà sono semplicemente intenti a fare qualcosa. Hanno un lavoro da svolgere, un’esigenza da appagare, e cercano di farlo nel modo più rapido ed efficace, possibilmente anche piacevole.
Uno dei primi ad acquisire una “visione aerea” del fenomeno è stato senza dubbio l’economista Theodore Levitt.
E’ il 1960 quando l’accademico americano pubblica un documento sull’Harvard Business Review, in cui parla per la prima volta di Marketing myopia. Non a caso un termine legato proprio alla vista e al modo di osservare i fenomeni.
Secondo Levitt, il focus deve essere portato sulle aspettative dei clienti piuttosto che sui prodotti. Il concetto è riassunto in una frase divenuta celebre:
Le persone non vogliono un trapano da un quarto di pollice,
vogliono un buco di un quarto di pollice“.
In pratica, il cliente non acquista prodotto ma piuttosto qualcosa che gli permetta di portare a termine un’attività. Le sue giornate sono dense di “lavoro” inteso in senso lato, vale a dire un gran numero di attività mentali, fisiche o emozionali che gli permetteranno di risolvere specifiche necessità ed esigenze.
Il lavoro è l’attività che ci distingue, impegna mente, cuore e mani. E’ il lavoro a renderci creatori di prodotti e solutori di problemi. Ed è ancora attraverso il lavoro che trasformiamo noi stessi e l’ambiente circostante.
Il prodotto, al contrario, limita la visione all’aspetto meccanicistico della questione, lo riduce a caratteristiche funzionali che al consumatore interessano relativamente.
Il prodotto si consuma e invecchia, mentre il lavoro che dobbiamo svolgere si rinnova, ponendoci continuamente di fronte a nuove richieste.
Ciò che desideriamo dunque, è il modo per diventare sempre più abili, esperti e disinvolti nell’assolvere ogni attività con poca fatica e magari anche divertendoci.
Ecco perché il Cliente accoglie con entusiasmo il cellulare che lo trasforma in un bravo fotografo, mentre non è particolarmente interessato a conoscere quali sono le caratteristiche tecniche che rendono possibile il piccolo miracolo.
Ciò che lo interessa è potersi avvalere di una semplice app per migliorare il proprio aspetto e renderlo più adeguato a come desidera apparire. Acquistare a prezzo contenuto una libreria o una cucina componibili che lo faccia sentire protagonisti di una vita patinata, potersi affidare a un robot da cucina per trasformarsi in abile chef in pochi minuti.
Il concetto è stato ripreso e messo a punto nella teoria del Job To Be Done, elaborata dal professore di economia aziendale Clayton Christensen.
Al di là degli utili approfondimenti e delle varie tecniche di applicazione elaborate intorno a questo modello, ciò che pare rilevante in assoluto nella teoria è proprio il concetto di lavoro.
Tradotto in pratica, e per riprendere la frase di Levitt, l’innovazione si concentrerà su trapani semprepiù performanti che cercherà di descrive minuziosamente a un Cliente relativamente poco interessato, mentre le aziende orientate alla teoria del Job to be done focalizzeranno la loro attenzione… sul foro. A come ottenerlo con perizia e precisione pur senza richiedere al cliente di acquisire competenze di carpenteria evolute.
Non resta che indossare gli occhiali giusti, correggere la miopia e prendere le giuste distanze.
Ora possiamo tornare a osservare i nostri Clienti indaffarati nell’esecuzione delle loro attività, e chiederci in quale lavoro siano impegnati, quali siano i risultati che vogliono ottenere, come si vogliono sentire.
E poi far sì che ci riescano al meglio.